Il Ristorante

 

Il Circolo della Caccia è dotato di un rinomato Ristorante ad uso esclusivo dei Soci. Il ristorante è aperto dalle ore 12,30 alle 15 e dalle ore 19,30 alle 22. A richiesta dei Soci l'orario può essere protratto, entro giusti limiti, oltre quanto sopra indicato.

La cucina del Circolo della Caccia

La cucina del Circolo della Caccia è rispettosa di forti accenti di naturalità: i suoi cuochi cucinano "come la nonna quando ha a pranzo i nipotini". Cucina sana, nulla che faccia saporito oltre il normale, nulla che possa fare male. Gli acquisti sono sempre fatti di persona dai cuochi che scelgono i prodotti naturali, quelli migliori e soprattutto di stagione, rigorosamente. Gli eventi di spicco sono la presenza di cuochi che vengono da Montecarlo; e poi di altri rinomati fautori di alta ristorazione, come Gualtiero Marchesi o l'enclave della Frasca di Castrocaro Terme. E poi non mancano le serate di cucina a tema... Circolo della Caccia e cucina sono un connubio invidiabile, dove chef di assoluto rilievo mettono al servizio dei soci e degli illustri invitati una cucina che vive soprattutto di prodotti stagionali e naturali, acquistati con grande oculatezza e preparati in modo semplice ma sublime. Già, perché qui è di casa anche il recupero di quella memoria gastronomica di cui ognuno è fedele depositano e nume tutelare. Attraverso il tramando generazionale e le continue rielaborazioni, avvenute tra le pareti domestiche grazie soprattutto all'estro e all'abilità delle donne di casa: madri, mogli, figlie, nonne, zie e nipoti. Sicché ogni casa possiede piatti griffati, ricette che possono essere state tra-mandate gelosamente di generazione in generazione e che pertanto appar-tengono alla tradizione di quella famiglia e solo di quella. Si tratta di documenti preziosi di arte culinaria che al Circolo vengono puntualmente valo-rizzati per farli diventare patrimonio culturale di tutti.

A Tavola

Tutti a tavola. Credo che la storia di Bologna, dai giorni bui ai più solari, proceda via via con questo capoverso, maliziosamente ripetitivo. Tutti a tavola. Sempre, dovunque e comunque. Civiltà della tavola. Anche nel Medio Evo? E perché no, quando magari la tovaglia serve ai commensali per pulirsi mani e bocca, quando i pasti, ricchi o frugali che siano, si servono alle l0 del mattino e alle 4 del pomeriggio, quando ogni commensale si getta con il suo cucchiaio di legno sulla zuppiera ricolma di minestra, quando i poveri diavoli campano con un pezzo di pane di segale, una fettina di lardo, le erbe e i legumi del campo, e i ricchi banchettano a tre portate da tre pietanze per volta a base di carni fredde, carni arrosto, carni farcite con accompagnamento di pasticci di carne e formaggi.
Per le nozze di Bonifacio e Beatrice di Canossa, madre di Matilde, si banchettò per tre mesi. Donizzone, frate cronista, racconta cose favolose. «... le droghe non vennero pestate nei mortai, ma macinate come grano dei molini a corso d'acqua. Si attingeva il vino da un pozzo profondo, una secchia d'argento pendeva da una catena pure d'argento con cui si attingevano appunto sia la dolcissima pozione, sia il vino. Un cavallo portava alla mensa anfore e piatti e il vasellame d'argento e d'oro risplendeva: qui risuonavano timpani e cetre».
Cinquecento: la cucina si riempie di cuochi, scalchi, trincianti, coppieri, pasticceri, la tavola diventa «status symbol», immagine di chi può. Per il pranzo di nozze di Annibale Bentivoglio, seicento ettolitri di vino e dieci quintali di carne, cacciagione esclusa. E i banchetti di inizio e fine gonfalonierato... Nel Cinquecento, ma anche nei Sei - Settecento.
Un privilegio per gli ospiti, una occasione per i servitori o «famigli», una manna per i «fruttaroli», gli speziali, i «beccari», i «pollaroli», i «lardaroli», i «pescivendoli», «li cochi che hanno cusinato il pasto».
Un privilegio per gli ospiti, una occasione per i servitori o «famigli», una manna per i «fruttaroli», gli speziali, i «beccari», i «pollaroli», i «lardaroli», i «pescivendoli», «li cochi che hanno cusinato il pasto».

Poi venne il Cardinal Legato: appetiti intemperanti, banchetti opulenti. Alcuni, anche semplicemente a livello di case nobiliari, sono rimasti memorabili, come quello offerto nel 1739 dal conte Zini che propose un pranzo di sole quattro portate, ciascuna delle quali però comprendeva dai 12 ai 14 piatti. All'epoca non si usava fare «screening» di massa per il colesterolo. Si passava d'un colpo da questo all'altro mondo. Anche se pochi erano i chiamati e ancora meno gli eletti, mentre il popolo si arrabattava in mille maniere per mettere sotto i denti almeno il necessario per vivere. Magari le cipolle, quelle in realtà, piuttosto abbondanti, visto che Charles De Brosses nelle sue «Lettres familières sur l'Italie» (1799) ci dice che ne «vide nella piazza delle montagne alte né più né meno come i Pirenei».
La storia della gastronomia è sempre stata scritta dalla parte del Palazzo, del ricco, mai, o quasi mai, dall'altra. Eppure la storia è sempre «double face». L'altra... una abbuffata, solo «una tantum» e magari comandata.

All'entrata dei Francesi a Bologna, e perciò in onore della neonata Repubblica Cisalpina, festa grande per tutti. La propone il cittadino Giuseppe Vincenti al Gran Circolo Costituzionale il 25 marzo (14 gennaio 1798): «ogni cittadino benestante conduca in piazza un altro cittadino, ma povero, che pranzerà al suo fianco, lo servirà, lo abbraccerà e darà in fatto un attestato di vera democrazia». Il 25 aprile Piazza Maggiore era irriconoscibile con tutte quelle tavole imbandite dove stavano assieme poveri e ricchi serviti dai militari della Guardia Nazionale. Piatti, carezze e perfino baci. Tenera e sensibile scena, commentò un improvvisato cronista, ossia quel che passa il «palazzo» una volta tanto.

Con l'Ottocento, Bologna volta pagina. La tavola si estende... «urbi et Qrbi», anche se, com'è naturale, sono i simposi nobili e legatizi a far notizia, prima da soli, poi con altri dalla più diversa cifra.
Si mangia dappertutto. Anche a teatro. Al Nosadella, tanto per dire e per testimonianza di Antonio Fidocchi, i bolognesi giungono a teatro con le sporte colme di maccheroni, tortellini, torte, formaggi, salsiccia, arrosti, frutta, fiaschi e bottiglie di vino e l'immancabile «brazadèla» (ciambella). Al teatro di S. Saverio (oggi Duse) in via Cartoleria Vecchia, durante gli intervalli alcuni bettolieri girano fra il pubblico con cesti di cotechino cotto, salsicce e passeri, arrostiti, mentre altri portano in giro i «mezzi», le «fogliette» e litri di vino nuovo, «fess com'è mnestra» (denso come la minestra).
Si mangia in teatro, ma anche fuori grazie a Dio e la cronaca del tempo, a cui Alessandro Cervellati attinge a piene mani per la sua «Bologna grassa», un grande affresco dell'epoca, non si occupa solo di appetiti plebei, ma anche di altro rango.

Il 4 dicembre 1876 va in scena al Comunale il «Rienzi» e la municipalità dà un banchetto in onore di Riccardo Wagner che è a Bologna con la moglie Cosima. Festa grande all'Albergo Italia. Wagner, si sa, ha qui un partito di musicofili e di «fans» a tutta prova.
Wagner, Verdi: mito contro mito. A una cena delle masse impegnate nel «Lohegrin», basti dire, il cavaliere del cigno prende le forme di una ciambella. è opera di Geremia Viscardi della premiata Pasticceria Viscardi.
La cucina bolognese, invece, sana e ... ruspante, non si sente all'altezza ... delle loro Altezze, il re Umberto e la regina Margherita in visita alla città il 5 novembre 1878 e prepara un menù ... parigino con «potage de veau», «foie-gras àl'aspic» e via dicendo. Del resto all 'Hotel Brun ci si guardava bene dal mettere nel menù dei grandi banchetti piatti locali, bensì potage all'inglese, cavolfiori all'olandese, beccacce in salsa di tartufi e torte viennesi.

Ma allora la cucina vera, quella bolognese, dove si nasconde?
«Nel palazzo», risponde Giorgio Maioli nel libro Civiltà della tavola a Bologna, scritto assieme a Giancarlo Roversi, «dove restano famose anche in questo secolo le tavole apparecchiate per anfitrioni celebri come il marchese Tanari, la contessa Gozzadini, il conte Giovanni Malvezzi, o donna Maria Hercolani, o il conte Dionisio Talon Sampieri, o il principe di Montpensier o magari Liza Otway», una ricca signora inglese che ha voltato le spalle al plum -cake per la «brazadèla».
Fra questa cucina di palazzo e quella che si fa ai livelli più popolari c'è la cucina borghese ricca di carni e di condimenti. Bologna la grassa non è uno stereotipo, ma una realtà. Una città in buona salute; allora. «A chi volesse poi sapere il perché in una città grassa ci sia tanta miseria - aveva scritto il dotto Carlo Finelli ancora nel 1839 - si potrebbe rispondere per la ragione appunto che vi è altrettanta ricchezza». Più lapalissiano di così!
«Alcuni piatti - afferma Maioli - diventano il simbolo stesso della città: le minestre, i bolliti e i fritti misti. Ed è in questo momento, mentre stanno per spegnersi le luci e i colori della Belle Epoque, che il tortellino, dopo aver galleggiato attraverso i secoli, sotto forme diverse, servito con zucchero e cannella o affogato nel brodo di cappone, acquista definitivamente il suo posto, con la tagliatella e le lasagnotte».

Arriva il 1888. è l'anno della Esposizione Emiliana e del VIII Centenario dell'Università. E tutti i salmi finiscono in gloria. Salmi e salmì, magari con Carducci officiante. Lavoro di menti e di denti. Bologna vive la sua tranquilla vita di provincia. Le insegne «ottima cucina e vini scelti» si sprecano. Esiste persino una Loggia Magnonica e, come questa non bastasse, nasce la Tavola quadrata del Rospo Volante (TQRV) ed elegge domicilio al «Chianti», un locale i cui conduttori fanno la loro provvista alle tenute toscane di Renato Fucini. Una confraternita originale, non c'è che dire. Vi trovano posto e voce tutte le opinioni e tendenze possibili, non escluse le altre, come annota spiritosamente Oreste Cenacchi in «Vecchia Bologna», conservatori e radicali, clericali e rivoluzionari, monarchici e repubblicani.
Vecchia Bologna, città di osterie e di caffè-corporativi. E c'è solo da scegliere. E chi può va al Circolo. La Bologna-bene frequenta il «Domino» di via Castiglione. Orario dalle 9 del mattino alle 3 dopo mezzanotte, ma in ogni caso fino a esaurimento dei soci. Il carattere del Circolo è decisamente elitario: 100 lire la tassa di iscrizione e 15 lire al mese per i soci fondatori, 50 di ammissione e l0 al mese per gli aggregati.

Cifre non indifferenti, non c'è che dire. Tutto particolare è il Circolo Felsineo, vero e proprio quartier generale dei «gros bonnets» del partito moderato dove si fanno e disfano deputati e consiglieri. Ai circoli esistenti un altro si aggiunge, il Circolo della Caccia che diciassette fondatori tengono a battesimo i 11 ottobre 1888. C'è già un «Caffé dei cacciatori», ma ci vanno anche gli studenti. Qui, il posto è esclusivo. La società lo mette nello statuto: il Circolo è fondato allo scopo di occuparsi di quanto concerne gli interessi della caccia nella provincia di Bologna e di procurare ai propri soci un'utile e gradevole riunione». Le pareti della sede di via Castiglione lo documentano iconograficamente: un cane con un uccello in bocca, una otarda (tacchino australiano, mi dicono), un cinghiale azzannato dai cani. L'attività venatoria è il tema fisso di ogni conversazione. La caccia ce l'hanno nel sangue. Si parla di albe livide e di vento che stecchisce, di cani e di uccelli, di tiratori a tutta prova e di fulminanti stoccatori di rastelli in pineta, di fucilate precise come un ricamo e di vecchi lupi di valle. Racconti con la pipa, avventure fra il vero e l'immaginario accompagnate da gagliarde bevute. Ma per mettere qualcosa sotto i denti senza dover uscire dal Circolo, bisogna voltare il secolo, appena un passo più in là. La cucina ha una data di nascita: 1901. è vero, anche quelli dell'«Accademia de la Lira», lo scapigliato, vivace, ribelle sodalizio sorto nel 1878, erano senza fissa dimora e i ristoranti erano in gara ad offrirsi, ma gli artisti, si sa, di quattrini che hanno sempre pochi e non fanno testo. Neanche Augusto Majani, il pittore Nasica, che pure campa con le sue indovinate caricature. Una cucina, dunque, per gli «habitués» che del Circolo hanno fatto la loro seconda casa. Circolo mondano anzichenò, i soci partecipano ai balli con il frac rosso dei cacciatori di volpi. I «verdi» sono ancora di là da venire. E se i signori si riuniscono in circoli" il popolo anima Società di mutuo soccorso e circoli ricreativi.

Da una parte, scriverà Enrico Zironi, su «Il muratore», organo della Classe operaia muraria, intingendo la penna nella lotta di classe, associazioni di «mutuo incensamento», dall'altra di «mutuo soccorso». Scopo dei soci della prima, egli annota, è chiaro: «incensarsi a vicende e studiare i modi più acconci onde occupare le primarie cariche del paese». Gli interessati lasciano dire... Una città in vetrina. La cucina della caccia, dicevo. E mi fermo. Posso solo immaginarmi com'era perché manca una qualsiasi pezza d'appoggio, quella su cui fa leva ogni storia. Non solo non c'è niente di niente negli archivi (neanche un menù scritto), ma nel frattempo sono scomparsi i testimoni. E a rigore, come ha detto qualcuno, non esiste la storia, solo la biografia.
Il vuoto è grande: 30-40 anni, il Circolo di Murri, Massarenti, Mazzacorati, il Circolo che nel 1939 fa Benito Mussolini socio onorario in buona compagnia con Dino Grandi, Luigi Federzoni, S.A. Reale il Principe Alberto di Savoia, Duca di Bergamo non lascia dietro di sè alcuna traccia scritta.
La cucina è volta a volta quella dei pranzi sociali, la selvaggina protagonista, o degli incontri ordinari scanditi sul pentagramma della tradizione, la tradizione bolognese, però, perché il Circolo non ne ha e non ne avrà mai una sua propria, preferendo adattarsi al menù proposto dai socia una parte, scriverà Enrico Zironi, su «Il muratore», organo della Classe operaia muraria, intingendo la penna nella lotta di classe, associazioni di «mutuo incensamento», dall'altra di «mutuo soccorso». Scopo dei soci della prima, egli annota, è chiaro: «incensarsi a vicende e studiare i modi più acconci onde occupare le primarie cariche del paese». Gli interessati lasciano dire... Una città in vetrina. La cucina della caccia, dicevo. E mi fermo. Posso solo immaginarmi com'era perché manca una qualsiasi pezza d'appoggio, quella su cui fa leva ogni storia. Non solo non c'è niente di niente negli archivi (neanche un menù scritto), ma nel frattempo sono scomparsi i testimoni. E a rigore, come ha detto qualcuno, non esiste la storia, solo la biografia. Il vuoto è grande: 30-40 anni, il Circolo di Murri, Massarenti, Mazzacorati, il Circolo che nel 1939 fa Benito Mussolini socio onorario in buona compagnia con Dino Grandi, Luigi Federzoni, S.A. Reale il Principe Alberto di Savoia, Duca di Bergamo non lascia dietro di sè alcuna traccia scritta. La cucina è volta a volta quella dei pranzi sociali, la selvaggina protagonista, o degli incontri ordinari scanditi sul pentagramma della tradizione, la tradizione bolognese, però, perché il Circolo non ne ha e non ne avrà mai una sua propria, preferendo adattarsi al menù proposto dai soci.

Passano due guerre e il Circolo resta. Finisce la seconda e il Comando Alleato lo elegge a propria sede. Il Presidente ottiene l'uso di metà dell'ambiente. Si cena... sui bigliardi, quando, la sera, il gioco finisce. Un telo, una tovaglia sopra e... pronto in tavola. I paralumi con le loro luci soffuse creano atmosfera. Li userà il cinema vent'anni più tardi per il caso Murri. Finalmente qualche «menù» d'epoca. Tre, in successione, datati luglio 1948. La proposta è un pranzo a prezzo fisso e per uno alla carta. Il primo: maccheroni, fiorentina, un pane, frutta o formaggio. Lire 350. Il secondo gioca su cinque primi (riso in brodo e fegatini L. 100, taglioline in brodo L. 75, zuppa reale L. 100, tagliatelle alla bolognese L. 140, gramigna al burro e pomodoro L. 140) e ben otto secondi (sogliola fritta L. 330, 1/2 pollo alla diavola L. 350, 1/4 pollo bollito L. 300, bistecca di metto L. 300, lombatina di vitello L. 280, vitello tonnè L. 320, galatina con gelatina L. 320, prosciutto e melone L. 250). Contorni: patate, zucchettini, fagiolini pomodori L. 70, insalata verde L. 50. Dessert: pesche, pere, susine S.Q., pesche sciroppate S.Q.
Gli altri due menù variano di poco.

Il testimone - protagonista del ritratto di gruppo iri un interno è Rino Grandi. Compare in scena il 2 gennaio 1952. «Fuori la neve era alta così», racconta, «è il timore che avevo io dentro di me era ancor più alto. Ero sì cameriere di estrazione, ma da osteria, non da un ambiente di queste pretese. Venivo dal militare e avevo vent'anni, pronto a tutto meno che a entrare in società. Tutti quei signori mi mettevano in soggezione. Passa il primo mese e le idee si fanno più chiare. Ce la faccio, mi dico, devo farcela. è così è stato. Poco per volta il Circolo è entrato nella mia vita. Ora sono più esigente io che i soci e il rapporto è di grande rispetto, reciprocamente». Rino ricorda. E così Gino Baldoni, classe 74. Per la Caccia, beninteso.
«C'era ai miei tempi - è sempre Rino che racconta - un segretario che ha pochi uguali, penso. Ferri, segretario perpetuo. Lui e il Circolo erano la stessa cosa. E il Circolo lo voleva ordinato e pulito come uno specchio. Si sapeva far ubbidire. Ogni pomeriggio si faceva portare da Enrico Zarri, il maggiordomo di allora, figura simpaticissima, un quadernino dove la sera precedente aveva annotato le cose da fare, come "togliere le ragnatele alla sala 4", "chiamare Calisto, l'elettricista per quella presa da aggiustare", "far venire Vignoli, il falegname perché quella sedia non può zoppicare per la vita" e via dicendo. Letto il tutto, chiedeva gli si rendesse conto con il personale davanti a lui schierato sull'attenti, cinque-sei persone. Ferri era un furbone: il rendiconto gli serviva da pretesto per passare in rivista maggiordomi e camerieri: quel bottone che si stacca è brutto, perché non ti sei lucidato le scarpe, oggi? Non sai che le unghie vanno tagliate o ti presenti così a servire a tavola? Era un rito quotidiano, cascasse il mondo».
Anche l'economo Rino Bortignoni si muoveva da par suo: «era ragioniere e pretendeva la maggiore economia».

In 36 anni Rino ne ha viste di cose e di persone. Si sente una specie di direttore d'orchestra e l'orchestra la vuole perfettamente amalgamata, dalla cucina, dove la Paola e la Cesarina lavorano d'esperienza e fantasia, alla sala dove con Gino Balboni, e Edoardo Roffi mette appetito ai commensali.Chissà quanto e come è cambiata la cucina anche qui in 36 anni? Una vera rivoluzione da quando 22 anni prima il consigliere segretario prof. Coppola aveva creduto di introdurre, d'accordo con i soci, i pranzi ufficiali in aggiunta a quelli sociali, alle feste del Circolo, alla colazione di tutti i giorni. «Pranzi ufficiali significava pranzi per conto di industriali, medici, politici, della buona società, diciamo, non più disposti ad aprire le loro case agli ospiti per un incontro conviviale. Troppo impegno per le signore, troppa fatica. E poi, al Circolo, la cucina la sanno fare. E a tavola, una tavola arredata secondo il gusto dell'anfitrione, c'è chi ti serve con grande signorilità. Chi scrive può essere buon testimone dell'ultimo ventennio per le poche occasioni avute, una più felice dell'altra. Alta cucina, raffinata. I «flan» della caccia, i semifreddi fanno storia. Non temono confronti, direi. Un mangiare sano e semplice. Qualche menù a caso. Questo in onore del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Generale di Corpo d'Armata Andrea Cucino in data 9 giugno 1977 propone: antipasto, prosciutto di Langhirano, tagliatelle alla bolognese, filetto di bue al cognac, punte di asparagi, pomodori gratinati, crema gelato in coppe, cestini di frutta. Vini: Trebbiano e Sangiovese.

Simposio d'inverno dell'Accademia Italiana della Cucina, 2 marzo 1975: polenta pasticciata alla Giulia, fegatelli al forno, arista di maiale al latte, patate e finocchi al latte, insalata primavera, semifreddo al caffé, caffé. Vini: Rosso Armentano, Malvasia. Altro incontro il 12 settembre 1986: cestini di caviale al Geoffrey, tartine autunnali, flute champenois; dalle cucine: peperoni dolci di Cuneo gratinati, garganelli casarecci di Francesco, zucchine e carote al balsamico, faraona arrosto con funghi del Montello, formaggio con il miele, semifreddi del Circolo, caffè, pane dei panificatori bolognesi; dalle cantine: Sangiovese «Rocca di Bertinoro» 1984 e 1985, Bellavista 1982 Metodo Champenois.
Un pranzo per palati fini, non c'è che dire.
Colazioni ufficiali a parte, come nasce un menù? Se non è frutto di specifiche ordinazioni, lo Chef dà lui l'idea dei piatti da fare. E questo ogni mattina, nella previsione di soddisfare a tavola tutti i santi giorni 25 - 30 coperti.